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Il Pakistan che non vuole i talebani

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L'offensiva di Islamabad contro i talebani si è risolta con una vittoria di Pirro. In fuga dal Nord, i guerriglieri si sono mescolati alle migliaia di profughi diretti a Karachi, la megalopoli da 15 milioni di abitanti. Dove si stanno riorganizzando all'ombra di centinaia di madrasse, in buona parte illegali - foto di Alessandro Digaetano

Ci sono voluti anni. Di attentati, di omicidi politici e di rese umilianti, prima che qualcosa si muovesse. Prima che il governo pakistano, sotto le pressioni sempre più insistenti del suo alleato americano, trovasse il coraggio di guardare negli occhi la propria creatura più incontrollabile e pericolosa. E decidesse che la declinazione più vistosa della talebanizza-zione, ovvero l'allargarsi della sfera di influenza geografica, militare e morale degli "studenti islamici" verso la capitale Islamabad, venisse fermata.
La cronaca di questa riluttante riscossa è stata scritta nei mesi scorsi negli scarni dispacci provenienti dalle montagne nel Nord-ovest del paese. Ma le recenti vittorie del Go-verno e dei suoi alleati non significano che la battaglia per la salvezza dell'unica potenza atomica islamica del pianeta sia stata vinta. Non solo perché i talebani hanno ricominciato a colpire con i loro attentati da Peshawar a Islamabad. Ma soprattutto perché nel corso dell'ultimo anno i segni della loro presenza sono aumentati anche al di fuori delle tradizionali aree di influenza. Come se il pugno di ferro con cui le forze armate hanno tentato di schiacciare i talebani nel Nord-ovest avesse contribuito a sparpagliare sull'intero scacchiere del-la regione il resto dell'organizzazione.
«La sensazione - spiega Alok Bansal, analista dell'Institute for Defence Studies & Analysis di New Delhi - è che la prossima sfida non verrà combattuta su un unico campo di battaglia, ma in una moltitudine di luoghi diversi». Dagli slum di Karachi ai vicoli di Quetta, passando dai villaggi del Punjab meridionale. Tutti luoghi dove miseria, sfiducia e risenti-mento nei confronti di uno Stato che nel migliore dei casi è assente, e nel peggiore è ostile, creano da tempo un terreno di coltura ideale per il progressivo radicamento dell'islam militante.
I primi a lanciare l'allarme circa il rischio di talebanizzazione di Karachi, la città più popolosa del Pakistan dove viene generato un quinto della ricchezza del paese, sono stati i leader del Muttahida Quami Movement (Mqm), l'influente partito locale che rappresenta i profughi giunti dall'India nel 1947. Secondo Syed Faisal Ali Subzwari, uno dei leader e-mergenti del movimento, il pericolo è reale: «Il rischio che interi quartieri diventino delle basi impiegate dai talebani per finanziarsi, riorganizzarsi e tornare a colpire è concreto».
Prendere interamente per buoni gli allarmi lanciati dagli uomini dell'Mqm sarebbe ingenuo. Il partito che governa Karachi è una delle creature più controverse della politica paki-stana. Mustafa Kamal, 37 anni, che guida la città, nel 2008 è stato nominato secondo miglior sindaco del mondo dal magazine Foreign Policy soprattutto grazie ai miglioramenti ap-portati alla rete infrastrutturale di Karachi. Pochi mesi prima però i militanti del suo partito avevano soppresso nel sangue una manifestazione pacifica contro il regime del generale Pervez Musharraf. Recentemente l'Mqm è stato l'unico partito a votare contro l'istituzione della shari'a nel Nord del Pakistan. Ma è difficile dimenticare che non ha mai smesso di finanziarsi con attività illecite e di cavalcare le divisioni etniche e linguistiche della città, da ultimo agitando lo spettro della talebanizzazione per mettere in cattiva luce la comunità rivale dei pashtun cui appartiene gran parte dei talebani.
Fatta questa premessa, è innegabile che le dimensioni di questa megalopoli (14-15 milioni di abitanti) e la presenza di una rete di centinaia di madrasse, o scuole coraniche - che hanno rapidamente soppiantato il disastroso sistema dell'istruzione statale - stiano contribuendo a farne una base ideale per dare asilo alle vecchie generazioni di militanti, non solo talebani, e formarne di nuove. Non è un caso che l'attacco che lo scorso anno ha messo in ginocchio Mumbai sia stato preparato proprio a Karachi. Non è un caso che, as-sieme a migliaia di profughi, sia proprio sulle sponde del Mare Arabico che hanno trovato rifugio molti dei talebani in fuga dalle battaglie nel Nord. Non è un caso che, ben prima dell'ultima ondata migratoria, l'International Crisis Group abbia richiamato l'attenzione sul pericolo rappresentato dalle oltre duemila madrasse, in gran parte illegali, dove vengono indottrinati i giovani provenienti dalle fasce più svantaggiate della società. Non solo. Recentemente hanno iniziato a levarsi voci contro la crescente presenza pashtun anche al di fuori della città, nel Sindh rurale, dove i partiti nazionalisti guardano con preoccupazione all'incrinarsi di equilibri demografici rimasti immutati per decenni.
Infatti non è sulla sola Karachi che si è posata l'attenzione degli osservatori più interessati alla migrazione dei talebani pakistani. Con la nuova fiammata di violenza che sta at-traversando il vicino Afghanistan gli occhi dell'intelligence americana sono tornati a guardare in direzione di Quetta, la capitale del Baluchistan, dove quasi certamente si nasconde il Mullah Omar. È nella parte settentrionale di questa provincia che non è più un azzardo usare la parola talebanizzazione. Ed è in Baluchistan che le priorità del Governo pakistano non potrebbero essere più divergenti da quelle dei suoi alleati a Washington. Non solo perché una parte dell'establishment militare continua a vedere nei talebani uno strumento per avere un ruolo negli equilibri di potere in Afghanistan. Ma anche perché i politici di Islamabad sembrano molto più preoccupati dei movimenti indipendentisti che agitano il Sud della provincia - e dei presunti appoggi che riceverebbero attraverso la rete consolare indiana al di là del confine con l'Afghanistan - che dalla presenza di militanti islamici a Nord.
  CONTINUA ...»

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